Sai qual è la parolaccia numero uno? Quella riferita all’attributo maschile.
Se guardiamo alle statistiche gli italiani risultano un popolo di zoticoni: nel dizionario di frequenza dell’uso dell’italiano parlato (LIP) la parolaccia numero uno è al numero 722, un centinaio di posti prima di sostantivi comuni come “saluto”.
Proviamo a dedicare a questo termine con un pò di attenzione. Ovviamente non vogliamo avvalorarne l’uso volgare, ma cerchiamo di ripercorrerne la storia, senza implicazioni moralistiche.
Non abbiamo nessuna certezza circa l’etimologia del termine, si va dal latino “cattia” che significa mestolo, al greco “akationn”, utilizzato dai marinai per dare l’ordine di “cazzare: tirare le cime”. Nessuna delle ipotesi formulata è stata finora avvalorata. Legittimo è sostenere che sia una variante di “cappio”, termine utilizzato volgarmente nel gergo militare per indicare il manico della spada.
I principali usi di questa “parolaccia”
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Già dal 500 si trova utilizzata per enfatizzare qualsiasi forma di emozione, dalla più spiacevole (brutta sorpresa) alla più piacevole (bella sorpresa). La stessa parola vale per la situazione opposta. A seconda del tono, si può usare davanti ad un ottimo piatto di pasta, anteponendola all’esclamazione “che buona”. Come ad uno pessimo, anteponendola a “fa schifo”.
Spesso la troviamo per dare valore a sì o no. Pronunciata con un tono simile a quello interrogativo, ad esempio, per rispondere alla domanda: “ti sei divertito ieri sera?” , corrisponde a “Sì, naturalmente! e come!”.
Per significare “no” abbiamo, invece, due varianti, preceduti dall’articolo “un” vuol dire “neanche un pò”. Mentre, preceduta dalla preposizione “col”, ha un valore provocatorio: ad esempio per rispondere alla domanda “gli farai il regalo?”.
Molto utilizzata anche per rafforzare le particelle interrogative “chi” e che “cosa”, inserite nel mezzo fra le particelle ed il verbo.
Dialetti regionali
Nelle locuzioni comuni assume significati specifici leggermente differenti nei singoli dialetti regionali.
È importante sottolineare che non vogliamo minimamente avvalorarne l’utilizzo volgare, è bene, anzi, che gli italiani imparino a controllarsi maggiormente mentre parlano.
È altresì importante che gli stranieri non cerchino di usare il termine per “mostrare la loro padronanza della lingua”. Al momento corretto, nel tono e nel contesto giusto, la stessa parola pronunciata da un italiano può avere anche una sua valenza giocosa. Ma usata da uno straniero “spaccone”, al momento sbagliato, con il tono e nel contesto sbagliato, può risultare davvero fuori luogo, addirittura oscena.