Lavorare, si sa, non sempre è un piacere. Nella maggior parte dei casi il lavoratore svolge le sue mansioni non per passione ma soltanto per ottenere lo stipendio a fine mese. E se a questo obbligo, tutt’altro che piacevole, si aggiungono anche comportamenti poco lusinghieri da parte di colleghi e superiori, diventa insostenibile. Quando ci sono comportamenti che ledono la dignità del lavoratore o violenti si configura il mobbing. Ma non sempre il lavoratore è a conoscenza del fatto che in caso di mobbing può far valere i propri diritti. Infatti, spetta risarcimento per questi comportamenti dei superiori che ledono sia la dignità professionale che la salute psico-fisica del lavoratore.
Mobbing, quando si configura?
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Solitamente il mobbing viene messo in atto per vessare il dipendente a tal punto dall’indurlo a lasciare il posto di lavoro. In questo modo il datore di lavoro può veder andar via un lavoratore senza doverlo licenziare. Ma non sempre quando si parla di mobbing si deve pensare che questa sia una pratica messa in atto da chi è in posizione superiore. In alcuni casi, infatti, anche un superiore può essere maltrattato dai sottoposti che non ne riconoscono l’autorità.
Non esiste, infatti, un solo tipo di mobbing e troviamo:
- quello gerarchico in cui il superiore vessa un sottoposto; in questo caso si configura abuso di potere;
- la tipologia dal basso quando vittima dei comportamenti, invece, è un superiore la cui autorità è messa in discussione, anche se questa tipologia non avviene spesso;
- quello strategico, quando il comportamento del superiore è volto ad ottenere le dimissioni del sottoposto difficile da licenziare;
- mobbing orizzontale quando a metterlo in pratica non è un superiore ma i colleghi.
Rimproveri continui in pubblico e in privato, demansionamento, forme di controllo eccessivo, esclusione del dipendente da iniziative aziendali sono esempi di mobbing. Ma anche mancata assegnazione di mansioni da svolgere, forzata inattività e mancanza di informazioni per svolgere il proprio lavoro lo sono.
Risarcimento per questi comportamenti dei superiori, ecco come difendersi
Per configurarsi il mobbing, in ogni caso, le condotte lesive e le persecuzioni nei confronti del lavoratore devono avere una durata superiore ai 6 mesi. E deve essere causa di ripercussioni nella sfera personale e psico-fisica del dipendente. In alcuni casi il mobbing, infatti, provoca anche della malattie croniche, come il disturbo post traumatico da stress. Ma la patologia che più spesso è associata al mobbing è il disturbo dell’adattamento con ansia e depressione. Da non dimenticare che in diversi casi il comportamento vessatorio è sfociato anche nel suicidio.
Si tratta, quindi, di condotte deprecabili che in Italia conta oltre 1 milione di vittime. Il mobbing sul lavoro, anche se non tutti lo sanno, rappresenta un reato penale. Il dipendente che si dimette volontariamente per questi comportamenti lo fa con giusta causa e, quindi, ha diritto anche alla NASPI.
Per difendersi dal mobbing il lavoratore ha come arma la denuncia. Innanzitutto all’autorità Giudiziaria ma anche attraverso i sindacati o la stampa. In questo modo si rompe l’omertà e si supera la vergogna di quello che si sta vivendo. In diversi casi di mobbing, poi, la Corte di Cassazione ha imposto al datore di lavoro un risarcimento danni nei confronti del dipendente. Quindi, non bisogna vergognarsi o aver paura di perdere il lavoro in questi casi, ma bisogna far valere i propri diritti.
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