Ripercussioni del conflitto israelo palestinesi sul mercato del gas

Ripercussioni del conflitto israelo palestinesi sul mercato del gas-Foto da imagoeconomica

Il conflitto israelo-palestinese deflagrato in Medio Oriente proietta i suoi effetti anche sul settore dell’estrazione del gas. I combattimenti in corso nella striscia di Gaza, oltre a notevoli ripercussioni di carattere geopolitico ne hanno generato anche altre sui mercati dell’energia. L’estrazione del gas nel quadrante orientale del Mediterraneo si trova ora in uno scenario in mutazione. Quali sono le ripercussioni del conflitto israelo palestinesi sul mercato del gas?

Lo stop di Israele

Le ultime esplorazioni internazionali avevano rivelato la presenza di enormi giacimenti offshore di gas naturale sul fondale marino nelle acque interne israeliane. Uno dei più grandi giacimenti è quello denominato “Tamar”, scoperto nel 2009 e situato a circa 25 chilometri dalla linea costiera di fronte alla città di Ashdod a poca distanza dalla striscia di Gaza. A seguito delle operazioni militari il Ministero per l’Energia israeliano ha ordinato alla compagnia francese Chevron di sospendere le attività upstream nel giacimento. La collocazione degli impianti di Tamar nel sud di Israele, quindi nei pressi della striscia di Gaza dove infuriano gli scontri, non consente la prosecuzione delle attività nelle condizioni di sicurezza necessarie.

E’ stato, di conseguenza, interrotto il flusso di gas nell’East Med Gas pipeline. East Med è una condotta che trasporta gas verso l’Egitto, congiungendo la città israeliana di Ashkelon, distante soli 13 chilometri da Gaza, con Arish, nel Sinai egiziano.

Ripercussioni del conflitto israelo palestinesi sul mercato del gas

Questa interruzione produttiva ha determinato una conseguenza interna per il mercato israeliano ed una, secondaria, che riguarda altri paesi del bacino del Mediterraneo. La prima conseguenza riguarda la generazione elettrica nel paese.  L’elettricità in Israele dipende per il 70% circa dal gas, il quale ha progressivamente sostituito il carbone. Complessivamente, nel mix energetico israeliano, la componente gas pesa per un 40% sul totale. La sospensione imposta sul giacimento Tamar, dunque, potrebbe preludere ad un parziale aumento nell’impiego del più inquinante carbone.

L’altra conseguenza ha, invece, implicazioni più vaste poiché va ad impattare sull’export di gas israeliano verso l’Egitto che subirebbe, a questo punto, una brusca interruzione. La produzione annua di gas israeliano ammonta a circa 21,9 miliardi di metri cubi e di questi circa 12,7 servono per il fabbisogno interno mentre il resto viene esportato in Egitto (5,8 miliardi) ed in Giordania (3,4 miliardi).

Se la situazione di sospensione che riguarda la produzione di gas dal giacimento Tamar si protrarrà nel tempo è probabile che l’Egitto avrà problemi a soddisfare il suo crescente fabbisogno interno di gas. Ciò potrebbe costringere quindi Il Cairo a limitare, a sua volta, le esportazioni di GNL (gas naturale liquido) dai suoi terminali costieri alla volta della Turchia o di altri paesi europei acquirenti. All’avvicinarsi dell’inverno questo sviluppo colpisce soprattutto l’Unione europea che importa circa 5 milioni di tonnellate di GNL dall’Egitto, su un totale di 96 milioni di import complessivo. Se a ciò si unisce il recente sabotaggio del Baltic Connector, il gasdotto sottomarino che, a partire dalla Finlandia rifornisce l’Estonia, ne deriva un quadro generale del mercato del gas in fibrillazione, con possibili tensioni sui prezzi.

La mezzaluna sciita

La situazione sembra, invece, essere migliore lungo le coste settentrionali dello stato ebraico, al largo delle quali si trova l’altro vasto giacimento di gas naturale, denominato “Leviathan”.

Per il suo sfruttamento, Gerusalemme ha di recente concesso a sei aziende energetiche, tra cui le due big British Petroleum e l’italiana Eni, dodici licenze per l’esplorazione ed individuazione di ulteriori riserve di gas naturale. Le imprese che si sono aggiudicate queste licenze formeranno due diversi consorzi: del primo, oltre ad Eni, faranno parte Dana Petroleum (una sussidiaria della Korea National Oil Corp.) e l’israeliana Ratio Energies; nel secondo, accanto alla capofila British Petroleum, vi saranno l’israeliana NewMed Energy e l’azera Socar.

I consorzi avranno a disposizione tre anni di tempo per condurre i loro programmi di esplorazione nelle aree contigue al giacimento Leviathan, ma potrebbero chiedere, per due volte consecutive, un’estensione biennale delle licenze, per arrivare ad una concessione massima di ben sette anni. Tutto ciò è il sintomo della volontà israeliana di investire nel medio-lungo periodo nel settore del gas naturale e di una postura orientata a mantenere in sicurezza i confini settentrionali del paese, ivi incluse le acque marittime antistanti.

Quali conseguenze?

Ma si tratta di una situazione che ha le sue criticità, dovendo tener conto del possibile allargamento del conflitto israelo-palestinese ad altri attori regionali quali Libano, Siria ed Iraq. Ripercussioni del conflitto israelo palestinesi sul mercato del gas, quali conseguenze?

Se ciò accadesse la minaccia che attraverserebbe la c.d. “mezzaluna sciita”, il corridoio di influenza creato dall’Iran fino al Mar Mediterraneo lungo i paesi sopra menzionati, costituirebbe un fattore estremamente pericoloso per i progetti israeliani.

Un tale scenario del genere, unito ai già difficili rapporti tra Grecia e Turchia, potrebbe rendere impossibile la realizzazione del progetto East Med Gas pipeline, la condotta gasifera che dovrebbe andare da Israele in Italia, attraverso Cipro prima e la Grecia poi. Inoltre, più in generale, la cooperazione energetica nel Mediterraneo orientale verrebbe ad essere gravemente compromessa dalle attuali fratture geopolitiche con serie ripercussioni per paesi, come l’Italia che stanno portando avanti politiche di diversificazione energetica, contando su questa direttrice per sostituire le forniture russe.

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