Quando molti anni fa venne coniato il termine “paesi emergenti” ci si riferiva ad economie arretrate (almeno secondo i canoni occidentali), a bassa o nulla crescita e caratterizzate da redditi pro-capite bassissimi.
Infine, per lo più instabili a livello politico e legislativo.
Ora a distanza di decenni qual è la situazione di queste nazioni?
La ricchezza complessiva è cresciuta a dismisura anche se nella quasi totalità dei paesi tuttora definiti emergenti è mal distribuita con classi ricche sempre più elitarie potenti ed economicamente solidissime e la gran parte delle popolazioni sulla soglia della povertà ed anche sotto.
La crescita economica però, soprattutto in Asia, è stata impetuosa e diffusa e la dinamica del PIL, che spesso ha superato le due cifre per definire la crescita annua, è stata lì a testimoniarlo.
Anche i livelli di disoccupazione sono per lo più molto bassi. Le disparità reddituali in molti casi derivano da precisi connotati culturali e religiosi che resistono da secoli e che ben difficilmente potranno essere modificati nel breve termine. In ambito politico ed economico la maggior parte di questi paesi ha dato prova di democrazia e stabilità giuridica con quadri normativi precisi e identificabili sia pure spesso peculiari e magari non in linea con i nostri riferimenti culturali occidentali.
A questo punto è lecito domandarsi: questi paesi debbono ancora essere definiti emergenti?
Non è che emergenti o ri-emergenti debbono essere inquadrati come tali i paesi a bassa e nulla crescita e forte instabilità politica come , ad esempio Italia e Grecia?
O invece, più semplicemente, la mia idea è che sarebbe opportuna una riclassificazione dei vari paesi secondo schemi e modelli più adeguati ai tempi e rispondenti a caratteristiche accumunanti in essere nell’epoca attuale.
Articolo di Gianluca Braguzzi – CFI Asset Management and Organization WIAM