In tema di società di capitali, data la netta separazione tra il patrimonio sociale e quello dei soci, anche nelle ipotesi di partecipazione totalitaria, vige il principio di matrice giurisprudenziale secondo il quale la partecipazione sociale costituisce un bene giuridicamente distinto ed autonomo, rispetto al patrimonio della società.
In particolare, da tali premesse, il Giudice del Diritto, a più riprese, ha inferito dei corollari interpretativi, in ordine alla risarcibilità del pregiudizio patrimoniale subito dal socio, come conseguenza di quello cagionato direttamente alla società dall’inadempimento contrattuale di un terzo.
Segnatamente, la Suprema Corte (cfr. Cass. 14.02.2012 n. 2087) ha affermato il postulato della natura meramente “riflessa” del pregiudizio patrimoniale arrecato alla quota di partecipazione del socio, rispetto a quello causato al patrimonio sociale (dall’inadempimento di un terzo).
Postulato, dal quale ha inferito il principio per cui il pregiudizio arrecato al socio (la cui quota sia stata indirettamente lesa), non è autonomamente risarcibile.
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Legittimazione del socio di società di capitali a proporre opposizione di terzo revocatoria, avverso un lodo arbitrale. Sussiste solo se il socio proponga l’azione processuale nella sua veste di creditore sociale. Studiamo il caso.
Tali coordinate ermeneutiche, consolidate nella giurisprudenza di legittimità, hanno dei risvolti processuali, sotto il profilo della carenza di legittimazione attiva del socio ad agire in giudizio per il ristoro del pregiudizio patrimoniale, conseguente al danno arrecato al patrimonio sociale.
Tuttavia, l’evoluzione del diritto societario, che va di pari passo con la prassi, invalsa, appunto, anche nell’ambito delle societas, delle negoziazioni “atipiche”, ha determinato l’insorgenza della necessità di una rivisitazione dei principi in tema di risarcibilità del danno riflesso subito dal socio e di quelli connessi, di natura strettamente processuale, relativi alla legittimazione attiva del medesimo.
In particolare, la questione si è posta con riferimento al giudizio promosso da una socia di S.r.l, titolare del 70 % del capitale sociale, per conseguire il risarcimento del danno patito, a causa della perdita di valore della sua quota di partecipazione. Tale pregiudizio sarebbe derivato dalla collusione posta in essere, ai suoi danni, nell’ambito di un’operazione di vendita immobiliare, tra: acquirente, in persona del l.r.p.t. della società e venditore.
Legittimazione del socio di società di capitali a proporre opposizione di terzo revocatoria, avverso un lodo arbitrale
La socia aveva quindi proposto opposizione di terzo revocatoria, ai sensi dell’art. 404 c. p. c, avverso il lodo arbitrale, che aveva dichiarato la risoluzione del contratto di compravendita stipulato tra quelle parti e, per l’effetto, disposto il trasferimento del compendio immobiliare, che ne costituiva oggetto, in capo all’Amministratore della S.r.l.
L’Adita Corte d’Appello (di Roma) respinse l’impugnazione, ritendendo che l’istante non fosse legittimata a proporre opposizione ex art. 404 c.p.c., sul presupposto per cui il danno patito dalla medesima sarebbe stato solo riflesso, derivante dalla perdita di valore della sua quota sociale.
Avverso questa sentenza, la socia ha proposto ricorso per Cassazione, affidato ad un unico motivo: Violazione e falsa applicazione dell’art. 404 c.p.c., dell’art. 2462 c.c. e dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n.5, stante la decisiva rilevanza della posizione di creditrice sociale rivestita dalla ricorrente.
Sostanzialmente, la ricorrente lamentava la circostanza secondo la quale la Corte d’Appello, pur muovendo da una premessa corretta, quale la netta separazione tra patrimonio sociale e quota di partecipazione al capitale sociale, scolpita dalla disposizione di cui all’art. 2462 c.c., per le S.r.l, ne avrebbe tratto l’erronea conseguenza dell’impossibilità, per il socio che sia anche creditore della società, di agire per mezzo di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.
In particolare, i Giudici del gravame avrebbero errato, per avere negato rilevanza, nella valutazione della legittimazione attiva della socia istante, all’ingente pagamento, operato dalla stessa a favore della società e pari ad 160.000 euro.
Secondo la tesi della ricorrente, invero, tale pagamento avrebbe natura di finanziamento e non di versamento in conto capitale, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello.
La Suprema Corte, investita della questione, afferma che, ai fini della corretta qualificazione della dazione di denaro da parte del socio e dell’inquadramento della fattispecie sia sotto il profilo sostanziale (afferente alla risarcibilità del pregiudizio occorso al socio), sia sotto quello processuale della relativa legittimazione ad agire, occorre interpretare la volontà delle parti. In particolare, il Giudice deve accertare se si tratti di un rapporto di finanziamento, riconducibile allo schema tipico del mutuo, (nel qual caso il socio finanziatore assume la qualifica di creditore sociale) o di un contratto atipico di conferimento.
In quest’ultima ipotesi, inoltre, è necessario accertare se il conferimento sia stato o meno condizionato, nella restituzione, ad un futuro aumento del capitale nominale della società.
Muovendo da tali premesse, la Suprema Corte ritiene la fondatezza della censura sollevata dalla ricorrente, accogliendo il ricorso, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame.
La motivazione della pronuncia della Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, pubblicata il 17.05.2022, n. 15875/2022, offre un excursus storico giurisprudenziale sulle diverse modalità di dazione di denaro da parte del socio alla società, ciascuna munita di una causa concreta. In particolare, l’Organo di Nomofilachia muove dall’assunto secondo cui: Dalla corretta qualificazione della dazione discendono conseguenze rilevanti, in odine alla configurabilità di un diritto di credito del socio nei confronti della società ed alla consequenziale sussistenza di una legittimazione attiva del medesimo in giudizio (anche di opposizione di terzo revocatoria).
Al fine di individuare la natura giuridica della dazione, dirimente è l’accertamento della causa del negozio, intervenuto tra socio e società.
La Corte d’Appello avrebbe, per contro, omesso di accertare se il versamento della ricorrente fosse sussumibile nel novero delle diverse fattispecie di: finanziamento, conferimento, versamento a fondo perduto o in conto capitale, o di versamento finalizzato ad un futuro aumento di capitale.
Accertamento rilevante in relazione a due profili connessi: quello sostanziale, afferente all’attribuzione del socio della qualifica di creditore sociale e quello processuale della sussistenza della legittimazione attiva del socio ad agire e, nel caso di specie, a proporre opposizione di terzo revocatoria, per la quale la legittimazione è accordata al solo titolare di un credito certo, no solo eventuale e/o condizionato, ad esempio, ad un aumento di capitale.
La Suprema Corte conclude affermando la massima secondo la quale:
in tema di società di capitali, il socio non può proporre opposizione di terzo revocatoria, nella sua qualità di socio, attesa la natura meramente riflessa e non autonomamente risarcibile del pregiudizio arrecato al valore della sua quota di partecipazione dal danno cagionato (direttamente) al patrimonio sociale.
Per contro, il socio è legittimato alla proposizione della suddetta azione processuale, se e nella misura in cui assuma la veste di creditore sociale, qualora abbia effettuato dazioni di denaro a favore dell’ente, che abbiano natura di vero e proprio finanziamento, riconducibile allo schema del mutuo, idoneo a far sorgere un credito restitutorio certo e non meramente eventuale.
La Massima sottende la rilevanza della causa, ovvero della funzione economico sociale da annettersi al negozio atipico, posto in essere, di volta in volta, tra socio e società, per l’accertamento della quale indispensabile è l’indagine relativa alla volontà delle parti del negozio.
L’atipicità dei contratti societari, nel novero dei quali sono sussumibili anche i patti parasociali, induce la Magistratura ad indagare in ordine allo scopo che le parti (socio e società) abbiano inteso perseguire attraverso lo specifico negozio in contestazione. La qualificazione della natura giuridica del negozio, infatti, avviene al di fuori degli schemi contrattuali tipizzati dal codice civile, accertando, di volta in volta, la comune intenzione delle parti e la causa concreta del rapporto contrattuale in essere tra le stesse.
Un’interpretazione del diritto societario sempre più dinamica, concreta, innovativa, basata sul collegamento negoziale, sui principi di atipicità dei contratti e dell’autonomia contrattuale, ancorata ad istituti basilari del diritto dei contratti: La causa del negozio e l’interpretazione della volontà delle parti.
Il caso concreto viene interpretato al di fuori dei topos contrattuali previsti dal codice civile, venendo sussunto più semplicemente nelle categorie generiche della causa del negozio giuridico e della voluntas, idonee a plasmare e qualificare negozi sempre più atipici.
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