L’esistenza, nel nostro Ordinamento, di un principio generale antielusivo, è desumibile da una serie di fonti normative, di rango comunitario (raccomandazione n. 2012/772/UE) e nazionale, di tipo costituzionale (Art. 53 Cost.) e giurisprudenziale. In particolare, ai sensi dell’Art. 53 Cost., non possono trarsi benefici da operazioni intraprese al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. Tale principio di diritto, è stato elaborato dalla Giurisprudenza comunitaria e dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Sez. Un, 23.12.2008, n. 30057), prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600.
L’abuso del diritto in materia fiscale: l’Agenzia delle Entrate deve provare il carattere indebito del vantaggio fiscale. Studiamo il caso.
Una volta codificato, il D.P.R. n. 600, art. 37-bis, ora sostituito dalla L. 27 luglio 2000 n. 212, art. 10-bis, non contiene una elencazione tassativa delle fattispecie abusive, ma costituisce una norma aperta, nel novero della quale l’interprete è chiamato a sussumere il caso sottoposto all’esame.
La Legislazione comunitaria e nazionale in materia antielusiva è conforme a quella venutasi a formare in tema di “abuso del diritto” in senso lato, al diritto vivente, allo ius superveniens, improntato ai principi di atipicità delle forme, autonomia contrattuale, collegamento negoziale, all’interpretazione delle clausole contrattuali secondo la formula di matrice anglosassone del “Case by case”, ad un approccio giurisprudenziale sempre più concreto, sempre più lontano dai confini del principio di tassatività, di matrice penalistica.
In tale contesto, si segnala la recente sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione del 9 maggio 2022, n. 14493, che ha accolto tre motivi (secondo, terzo e quarto) del ricorso, cassando la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti.
Indice dei contenuti
All’origine della vicenda processuale, l’Agenzia delle Entrate emise due distinti avvisi di accertamento, con i quali rettificò la dichiarazione di una s.r.l., per gli anni d’imposta 2005 e 2006, accertando, per quegli anni d’imposta, ai fini IRES, IRAP ed IVA una indebita detrazione IVA e minori componenti negative (minusvalenze e ammortamenti indeducibili). In particolare, l’Amministrazione aveva accertato che nel 2006 la società aveva acquistato dall’unico socio, due unità immobiliari, al prezzo di 3 milioni di euro.
L’abnormità del prezzo, secondo l’Agenzia, rivelava che la s.r.l. aveva distribuito utili al socio, mascherandoli da corrispettivi di cessione dell’immobile, per consentire al medesimo socio di evitare la tassazione dei dividendi ed alle società di dedurre maggiori ammortamenti, pagando minori imposte. L’Amministrazione, inoltre, emise avvisi di accertamento a carico del socio e di altre società, con la quale la prima aveva sottoscritto contratti commerciali, per l’illegittima detrazione di fatture, relative ad operazioni oggettivamente inesistenti.
L’abuso del diritto in materia fiscale
Ciascuno dei contribuenti, destinatari degli avvisi di accertamento, propose distinto ricorso, che l’Adita Commissione tributaria provinciale, dopo averli riuniti, rigettò. Proposto dai contribuenti, soccombenti in primo grado, appello congiunto, la Commissione tributaria regionale competente per territorio, parimenti, lo rigettava. Avverso tale sentenza, le due s.r.l. ed il socio hanno proposto unitario ricorso per Cassazione, affidato a sette motivi, dei quali la Suprema Corte ha accolto il secondo, il terzo e il quarto, ritenuti connessi e trattati congiuntamente. Nella motivazione, i Giudici del diritto muovono dall’assunto secondo il quale: In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un generale principio antielusivo, rinvenibili negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano, oltre che in quelli comunitari.
Tale principio, sostanzialmente, preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali, mediante l’uso distorto, benché non contrastante con una specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione. Secondo tale ordinamento giurisprudenziale, la sussistenza di ragioni idonee a sorreggere l’operazione economica, ovvero la causa economico sociale o lo scopo della stessa, deve essere provata dal contribuente.
Muovendo da tali premesse, la Suprema Corte afferma che, al fine di verificare la configurabilità di un abuso di diritto, occorre accertare se la fattispecie sub iudice sia sussumibile nella clausola, generale ed atipica, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.
A tal proposito, è stato ritenuto che, in materia tributaria, l’opzione del soggetto passivo per l’operazione fiscalmente negoziale meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta antielusiva, essendo necessario che il conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale. Ai fini della ravvisabilità della fattispecie abusiva, è richiesta la concomitante condizione di inesistenza di ragioni economiche diverse dal semplice risparmio d’imposta e l’accertamento dell’effettiva volontà dei contraenti di conseguire un indebito vantaggio fiscale.
Da tali principi ermeneutici, è stato inferito il postulato secondo cui l’opponibilità al Fisco dell’operazione presuppone che essa abbia quale suo elemento assorbente e predominante lo scopo di eludere il Fisco, ovvero che non abbia una giustificazione economica apprezzabile, diversa dal mero intento del risparmio d’imposta.
La sussumibilità della fattispecie concreta in quella atipica e aperta dell’abuso del diritto, in materia fiscale, passa quindi attraverso l’accertamento della causa del negozio posto in essere. Ancora una volta, è la causa del contratto, ovvero dell’operazione economica posta in essere in concreto, a riempire di contenuti clausole atipiche, coniate dal legislatore comunitario e nazionale. Un approccio, quello del Legislatore tributario, coerente con un sistema di diritto in evoluzione, sempre più armonizzato con quello europeo di rango sovranazionale e con il diritto civile, societario, commerciale, dei mercati finanziari.
L’abuso del diritto in materia fiscale e il disegno elusivo.
Per tale via, con la Sentenza n. 14493 del 9 maggio 2022, la Sezione Tributaria della Suprema Corte afferma il principio secondo il quale incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi nazionali classici, considerati irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale.
Nel caso sottoposto all’esame, quindi, incombeva sull’Amministrazione finanziaria l’onere di spiegare, anche nell’atto impositivo e provare, in corso di causa, che il complesso delle forme giuridiche impiegate nell’operazione negoziale avesse carattere anomalo o inadeguato, rispetto all’operazione intrapresa.
Per contro, il contribuente avrebbe dovuto provare la compresenza di un concomitante contenuto economico dell’operazione, non marginale, diverso dal mero risparmio fiscale, che giustificasse le operazioni compiute.
La pronuncia si inserisce nel solco di quelle in materia di abuso del diritto, con il pregio di rendere un excursus storico giurisprudenziale sull’argomento, di riempire di contenuti clausole volutamente atipiche, aperte, coniante dal Legislatore per lasciar spazio all’interprete e, in parallelo, alla volontà dei contraenti. In relazione ad ulteriore ma connesso profilo, essa traccia le coordinate in tema di onus probandi dell’abuso del diritto “fiscale”, per la prima volta imponendo un preciso onere probatorio anche in capo all’Amministrazione, dovendo, per contro, il contribuente, provare che la causa del negozio posto in essere sia, prevalentemente, diversa da quella del mero vantaggio fiscale. Un onere, quello in capo al contribuente, che potremmo definire, ad colorandum, secondo lo schema della “causa prevalente”, nei contratti collegati.
Lettura consigliata