La rivoluzione anagrafica inaugurata dalla Corte Costituzionale

Corte Costituzionale

Il vuoto legislativo, storicamente, ha sempre imposto e continua ad imporre interventi della Magistratura, tesi a guidare il Parlamento nella fase creativa del diritto, ovvero a supplire il potere legislativo, laddove questo fallisce o ha fallito.

L’assenza di norme, o la disomogeneità delle stesse, la carenza di organicità del “sistema”, il proliferarsi ed il sovrapporsi di disposizioni legislative, talvolta persino in contraddizione, le une con le altre, del resto, offre ampi margini d’interpretazione del diritto.

In tali ambiti si estende l’opera della Giurisprudenza, mediante la pubblicazione di sentenze manipolative e/o creative dello “ius in itinere”.

La rivoluzione anagrafica inaugurata dalla Corte Costituzionale: il cognome quale riflesso dell’identità personale del nascituro, del principio di uguaglianza e delle pari opportunità. Studiamo il caso.

È quanto accaduto con la pronuncia della Corte Costituzionale, resa lo scorso 27 aprile 2022, non ancora pubblicata, che impatta sul diritto di famiglia, in particolare sotto il profilo della regola iuris, sulla cui base viene trasmesso il cognome dei genitori ai figli nati in costanza (legittimi) o fuori (naturali) del matrimonio, o adottivi.

Nell’ordinamento giuridico italiano, infatti, non esiste una norma “ad hoc”, che stabilisce l’automatica attribuzione del cognome paterno ad un figlio nato all’interno di un matrimonio, in presenza di una diversa volontà dei genitori. L’attribuzione del cognome paterno suona, piuttosto, come un retaggio sociologico, storico e culturale ormai superato, da una società in cui sono invalsi i principi di pari opportunità, per cui ogni automatismo basato sul sesso o sulla razza è discriminatorio in re ipsa e viola il principio di uguaglianza sostanziale, consacrato dalla disposizione di cui al secondo comma dell’art. 2 Cost.

La rivoluzione anagrafica inaugurata dalla Corte Costituzionale  e la ratio. Quali considerazioni si possono fare?

L’articolo 262 c.c., regola, tuttavia, l’assegnazione del cognome per i figli nati fuori dal matrimonio: ratio sottesa alla disposizione, però, non è quella di colmare il vuoto legislativo nella materia, bensì quella di regolamentare l’automatismo, nell’assegnazione del cognome del padre, nell’ambito delle unioni di fatto (convivenze more uxorio).

Questa automaticità, del resto, secondo la Corte Costituzionale, è desumibile da diverse disposizioni del codice civile, da leggersi e da interpretarsi in modo sistematico, nonché da alcune leggi. Sin dal 2016, i Giudici della Corte Costituzionale avevano dichiarato illegittimo un tale automatismo, definendo come “indifferibile” un intervento del Parlamento “per disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”.

La rivoluzione anagrafica inaugurata dalla Corte Costituzionale  e il cognome

I Magistrati italiani avevano colto la lectio della Corte Europea dei diritti dell’uomo, la quale aveva definito, nel 2014, la preclusione all’assegnazione al figlio del solo cognome della madre una forma di discriminazione basata sul sesso, in violazione del principio di uguaglianza tra uomo e donna.

Il 24 settembre 2014, durante il Governo guidato da Matteo Renzi, alla Camera dei Deputati era stata approvata una Proposta di Legge, che prevedeva il superamento dell’assegnazione automatica del cognome del cognome del padre ad un figlio.

Segnatamente, la proposta era quella di inserire un nuovo articolo (143 – quater) all’interno del codice civile, in base al quale i genitori coniugati potessero attribuire al figlio o solo il cognome del padre o solo quello della madre o di entrambi, nell’ordine concordato. In caso di mancato accordo tra coniugi, secondo la proposta, al figlio erano attribuiti i cognomi di entrambi i genitori, in ordine alfabetico. Se la coppia avesse avuto altri figli, a questi avrebbe dovuto essere dato il cognome scelto per il primo. Ed ancora, qualora i genitori avessero optato per dare entrambi i cognomi ad un figlio, quest’ultimo avrebbe poi dovuto (chissà in base a quale criterio), trasmetterne uno solo ai propri figli.

La proposta di Legge, alla fine del 2017, aveva concluso il suo esame alla Commissione Giustizia del Senato, ma non era giunta al voto finale in aula.

In questa legislatura, iniziata a marzo del 2018, in Parlamento sono stati depositati almeno 11proposte di legge, provenienti da diversi partiti; cinque di esse hanno iniziato il loro iter alla Commissione Giustizia del Senato e sono pressochè identiche: ricalcano il testo approvato dalla Camera nel 2014, con alcune specifiche, riguardanti, in particolare, il caso dei figli naturali, quello del riconoscimento da parte di entrambi o di un solo genitore ecc.

Un eventuale testo approvato dalla Commissione Giustizia dovrebbe ricevere l’approvazione dell’aula del Senato e, successivamente, passare poi alla Camera, a meno di un anno dalla fine della Legislatura.

In tale contesto parlamentare, si inserisce la recente sentenza della Corte Costituzionale, depositata il 27 Aprile 2022, che getta luce sui lavori parlamentari, sollecitando l’intervento del Parlamento, in subiecta materia.

La sentenza, non ancora pubblicata e della quale non si conoscono, ad oggi le motivazioni e l’iter logico argomentativo, se non la massima di diritto, afferma l’illegittimità delle disposizioni che: non consentono ai genitori di dare al figlio, di comune accordo, solo il cognome della madre e che obbligano ad usare solo quello del padre, anziché quello di entrambi i genitori, in caso di mancato accordo.

La ratio sottesa alla declaratoria d’illegittimità di tali norme va ravvisata in un duplice ordine di ragioni:

da un lato, esse risultano discriminatorie, attuando, di fatto, una discriminazione basata sul sesso, nonché e, conseguentemente, lesive dei principi di uguaglianza sostanziale, mutuati dal secondo comma dell’art. 3 Cost. e di quello di pari opportunità. In relazione ad ulteriore ma connesso profilo, invece, ledono i diritti costituzionali all’ immagine, all’identità personale, di autodeterminazione del figlio.

La regola diventa, secondo i Giudici, che: “Il figlio assume il cognome di entrambi i genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire solo il cognome di uno dei due.

Sarà compito del Parlamento, statuisce la Corte, regolamentare tutti gli aspetti connessi alla massima di diritto, tra i quali: l’eventuale moltiplicazione di cognomi, di generazione in generazione; l’attribuzione dello stesso cognome per fratelli e sorelle, figli degli stessi genitori, la retroattività della novella legislativa, ovvero se sarà possibile cambiare i cognomi assegnati in passato, adeguandosi alle nuove leggi, l’eventuale disaccordo dei genitori sulla scelta del cognome ecc.

Diverse le letture che sono state date alla recentissima sentenza della Corte Costituzionale:

Tra queste, va accordata natura privilegiata a quelle che ne valorizzano la funzione educativa e, talvolta, rieducativa della coppia, a prescindere dalla distinzione tra matrimonio e convivenza more uxorio, in chiave non solo costituzionalmente orientata, bensì anche sociologica e di armonizzazione con la Legislazione Europea.

Una sentenza storica e rivoluzionaria, creativa dello ius vivente, ispirata ai diritti scolpiti dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e quindi rispettosa non solo della fonte del diritto princesps, nell’ambito dell’Ordinamento giuridico interno, la nostra Costituzione, bensì anche e soprattutto di quello sovranazionale, del quale estrinseca la funzione tipica di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri dell’Unione Europea.

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