La guerra culturale di Pechino

La città proibita di Pechino-Foto da pixabay.com

Come già accennato in due precedenti articoli, il nuovo ordine mondiale immaginato dalla Cina si fonda su tre iniziative globali messe in campo dal Celeste Impero. Oggi tratteremo invece la guerra culturale di Pechino.

Sebbene poco indagate e studiate dalla gran parte degli analisti di geopolitica, le cosiddette “Global initiatives” messe in campo da Pechino meritano, invece, una particolare attenzione. Negli ultimi anni, infatti, la Cina ha inteso presentare sulla scena mondiale tre iniziative che ha voluto rappresentare, scevra dalle passate timidezze diplomatiche, come i tre pilastri del nuovo ordine mondiale “con caratteristiche cinesi”: esse sono l’Iniziativa globale per la sicurezza, quella per lo sviluppo ed ultima, ma non meno importante, quella per la civilizzazione. In due precedenti articoli avevamo analizzato l’Iniziativa globale per la sicurezza e, successivamente, la GDI o Global initiative for Development, che pone al centro del discorso il tema dello sviluppo economico globale. In questo terzo articolo della rassegna parleremo invece della c.d. Global initiative for Civilization (GCI), nel contesto della visione portata avanti da Pechino sul nuovo ordine mondiale “con caratteristiche cinesi”.

Dietro questa sfuggente dicitura si cela il tentativo cinese di modificare il setting dei valori democratici occidentali che, nel corso della storia, si sono affermati come universali, soprattutto in relazione ai diritti umani ed a quelli di cittadinanza. Nella visione di Pechino il fulcro dei diritti e dei valori universali non dovrebbe più essere l’individuo, quanto piuttosto l’entità collettiva statuale che tali individui governa. Uno spostamento culturale profondo, pertanto, che sembra attagliarsi perfettamente ai regimi autocratici, i quali esaltano la sovranità dello Stato, a scapito delle libertà individuali.

La guerra culturale di Pechino

Attraverso questa iniziativa di “civilizzazione”, insieme con quelle per la sicurezza e lo sviluppo, il Celeste Impero intende, dunque, proporre sulla scena internazionale una narrazione alternativa a quella ora dominante, di marca statunitense.

L’idea di fondo è quella di diventare, gradualmente, un polo di attrazione per il c.d. Global South, l’emisfero meridionale del pianeta, costituito non solo da paesi in via di sviluppo, ma anche da paesi già pienamente inseriti nei mercati globali. Il passo successivo sarà poi quello di posizionarsi nella faglia geopolitica e geo-culturale, sempre più ampia, che si sta aprendo tra “the West” and “the Rest”.

Vi è però da aggiungere che, lungi dal costituire un vero corpus di valori alternativi e definiti, i contenuti della Global Civilization Initiative appaiono piuttosto vaghi ed ambigui, forse volutamente, tali da lasciar spazio di manovra ai decisori cinesi. Nei discorsi di Xi Jin Ping si fa riferimento, ad esempio, al concetto di comuni “aspirazioni dell’umanità” alla pace, allo sviluppo, all’equità, alla giustizia, democrazia e libertà, evitando accuratamente di identificarli come diritti. Si afferma poi che tali “aspirazioni” sarebbero da intendersi come “relative” alle differenti culture cui si riferiscono, e non dovrebbero esser considerate assolute e men che meno universali. Il corollario che ne consegue porta decisamente verso l’affermazione del principio di non ingerenza nelle scelte valoriali compiute da paesi terzi, qualunque esse siano.

La manovra

La guerra culturale di Pechino: cosa attendere? In tal modo, tentando di affermare un relativismo non solo culturale, ma anche giuridico e sociopolitico, la manovra cinese mira a delegittimare tutte le norme di diritto internazionale e le relative istituzioni, nate sulla scorta del pensiero liberal-democratico occidentale, su cui si fonda l’attuale governance globale.

L’altro sottile elemento, sotteso a tale processo di supposta civilizzazione, è rappresentato dall’affermazione che ciascun paese dovrebbe astenersi dall’imporre ad altri i propri modelli o valori; questo tipo di narrazione funziona assai bene in vasti territori dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina che sono passati attraverso processi di colonizzazione da parte di potenze occidentali, segnatamente europee. La retorica del bianco occidentale sfruttatore e malvagio funziona ancora assai bene e Pechino ha pensato bene di rielaborarla in salsa cinese.

Infine, il frequente uso del termine “civiltà”, utilizzato al posto di paesi o nazioni, nello storytelling cinese della GCI, vuole forse alludere alla superiorità degli imperi euroasiatici (cinese, persiano, russo, ottomano, etc…) per strizzare l’occhio a possibili compagni di viaggio quali Iran, Russia e Turchia che, agli occhi di Pechino, costituirebbero degli ottimi soci per il nascente club delle autocrazie.

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