Ormai esiste una definizione piuttosto consolidata di mobbing. Si tratta di quell’insieme di comportamenti, anche formalmente leciti, che hanno come intento quello di perseguitare un certo soggetto. In particolare, si parla di mobbing sul luogo di lavoro quando questi comportamenti si traducono in una complessiva azione aggressiva verso quell’individuo. Di solito, questo insieme di comportamenti ha il fine di danneggiare e emarginare dal gruppo e dall’ambiente di lavoro la vittima prescelta.
Non esiste un elenco chiuso dei comportamenti che costituiscono mobbing. Secondo la giurisprudenza qualunque insieme di comportamenti, anche leciti formalmente ma, diretti a danneggiare ingiustamente la vittima può essere mobbing. Spesso si portano gli esempi del sottrarre al dipendente tutte le sue funzioni, oppure assegnargliele un carico eccessivo. Anche comportamenti quali escludere il dipendente da riunioni o cene di lavoro, da progetti e altri simili. Oppure la vittima potrebbe subire azioni anche più esplicite, come violenze fisiche e verbali.
Gli elementi del mobbing
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Il mobbing è un reato e perché sussista devono, quindi, ricorrere sostanzialmente 4 elementi. Il primo è l’insieme di comportamenti persecutori nei confronti della vittima. Non basta, una sola azione, anche se ingiusta e illegittima, per far scattare il mobbing. Serve, infatti, un insieme di condotte sistematiche e di una certa durata nel tempo. Il secondo elemento è quello del danno al dipendente vittima, un danno al suo fisico oppure alla sua integrità psicofisica. Il terzo elemento, viene chiamato in gergo tecnico, nesso di causalità. Deve esserci un collegamento tra il primo e il secondo elemento. Nel senso che si deve provare che proprio quei comportamenti dei colleghi hanno danneggiato l’integrità psicofisica del dipendente.
L’ultimo elemento è l’intenzione persecutoria. Questo elemento rappresenta le intenzioni aggressive e persecutorie degli altri lavoratori, e crea un legame tra i vari comportamenti messi in campo. La Cassazione ha parlato spesso di mobbing, ed è tornata a farlo con l’ordinanza n. 22381. In particolare, ha chiarito se ripetuti provvedimenti disciplinari possano costituire mobbing. Secondo la Cassazione continui provvedimenti disciplinari potrebbero, astrattamente, costituire mobbing. Bisogna, però, vedere se il datore di lavoro abbia adottato questi provvedimenti senza alcuna ragione.
Il mobbing è un reato e chi lo subisce può avere questa somma di denaro
Bisogna, cioè, indagare se questi provvedimenti realmente non avessero motivazione. Solo se questi provvedimenti sono senza motivazione e illegittimi può configurarsi mobbing. Perché il dipendente possa provare la mancanza di motivazione dietro i provvedimenti disciplinari, secondo la Corte, ha l’obbligo di impugnarli. Deve, cioè, chiedere al giudice di annullare tali provvedimenti perché immotivati. Se si ripetono nel tempo e il dipendete ogni volta riesce a farli annullare dal giudice perché mancanti dei presupposti, può aversi mobbing. In questo caso, il dipendente potrà chiedere un ingente somma di denaro rappresentata dal risarcimento del danno alla sua integrità psicofisica.
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