Il grado di protezione del marchio debole rispetto al rischio confusorio. L’apprezzamento sulla confondibilità tra segni distintivi similari deve essere compiuto non in via analitica, bensì facendo ricorso ad una valutazione globale e sintetica. Studiamo il caso.
Al fine di stabilire la sussistenza o meno di un rischio confusorio per il pubblico, tra segni distintivi similari, dirimente è il corretto accertamento del requisito della novità del marchio, rispetto ad un diverso marchio già registrato, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. d) d. lgs n. 30/2005 (c.p.i.).
Valutazione, questa, particolarmente complessa, nel caso in cui il marchio preesistente sia dotato di una ridotta capacità distintiva (marchio “debole”), in quanto strettamente aderente al prodotto o servizio contraddistinto dallo stesso. Il tema sotteso alla questione è quello del differente grado di tutela assegnato ai marchi “deboli”, rispetto a quelli “forti”, i quali, a differenza dei primi, non presentano un’aderenza concettuale al prodotto o servizio offerto.
La quaestio iuris è stata affrontata a più riprese dai Giudici di legittimità, accordando una tutela differente al marchio forte ed al marchio debole, rispetto ad ipotesi di contraffazione.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, sul punto, al primo è accordata una tutela maggiore, rispetto al secondo. Segnatamente, riguardo al primo, sono considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino sussistere l’identità sostanziale, ovvero il nucleo ideologico espressivo, l’idea fondamentale caratterizzante il segno distintivo.
Quanto al secondo, per contro, la confondibilità e, di conseguenza, la contraffazione, è esclusa quando vengano apportate lievi modificazioni o aggiunte. La ratio sottesa alla differente tutela accordata alle due tipologie di segni distintivi è da ravvisarsi nella circostanza per cui i marchi deboli sono connotati intrinsecamente da uno scarso valore distintivo, tale da attenuare il rischio di confusione.
Si pone, tuttavia, il problema di verificare, in concreto, se le variazioni apportate al marchio debole siano o meno rilevanti, sotto il profilo della determinazione del rischio confusorio e della contraffazione.
La Suprema Corte è tornata, recentemente, ad esprimersi sul tema della tutela del marchio debole, individuando la soglia di marginalità delle modificazioni tali da elidere il rischio confusorio.
Il caso sottoposto all’esame dei Giudici di Nomofilachia trae origine dall’opposizione, promossa da una S.r.l., titolare di un marchio complesso, contro la domanda di registrazione di un segno distintivo posteriore, recante parole identiche e finalizzato a contraddistinguere servizi similari.
Accolta l’opposizione da parte dell’Ufficio italiano brevetti e marchi (U.I.B.M), successivamente, la Commissione ricorsi rigettava l’opposizione, sul presupposto per cui il marchio in contestazione, di proprietà della società ricorrente, fosse un marchio “debole”, nel senso sopra precisato.
Segnatamente, la Commissione rilevava che la ridotta capacità distintiva del marchio debole comportava una tutela affievolita, per cui lievi variazioni o integrazioni sarebbero state idonee ad eliderne il rischio confusorio e ad escludere la contraffazione. L’Organo Giudicante concludeva affermando che la differenziazione, tra i due segni distintivi, a livello di parole, colori e simboli, accompagnati alla medesima espressione descrittiva, erano sufficienti ad escludere il rischio dedotto dal ricorrente.
La S.r.l titolare del marchio “anteriore”, impugnava la decisione della Commissione dinnanzi alla Corte di Cassazione. I Giudici di legittimità hanno al riguardo rilevato che l’apprezzamento sulla confondibilità tra segni distintivi similari non deve essere compiuto in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, bensì mediante una valutazione globale e sintetica, avuto riguardo all’insieme degli elementi, grafici, cromatici e lessicali del segno distintivo.
Il grado di protezione del marchio debole rispetto al rischio confusorio
Nel caso di specie, quindi, l’impressione suscitata nel pubblico dall’insieme dei segni distintivi non era sovrapponibile, dovendosi ritenere sufficiente la diversificazione tra marchi operata con parole, colori e simboli. La Suprema Corte ha, quindi, precisato che il segno distintivo in oggetto doveva essere qualificato come marchio debole, per cui la decisione assunta dalla Commissione ricorsi non poteva che essere confermata, in quanto l’insieme degli elementi modificativi ed integrativi del marchio posteriore, ancorchè affiancati alla stessa espressione linguistica, erano sufficienti a superare il raggio di protezione riconosciuto al marchio anteriore. La Cassazione, pertanto, con sentenza n. 12566/2021, sezione I, ha rigettato il ricorso.
La sentenza de quo è fortemente ancorata alla logica della distinzione tra marchi deboli e marchi forti ed al differente regime di tutela ad essi accordato, maggiore nel secondo caso. Ad un’attenta analisi, estranea alle logiche monopolistiche, la statuizione appare “grottesca” e getta luce sull’opportunità di eguagliare la soglia di tutela delle due tipologie di segni distintivi, al fine di disincentivare episodi di contraffazione e di concorrenza sleale.
Si impone, in effetti, una riflessione economico-giuridica: Non è forse opportuno che ai marchi “deboli” sia accordata una tutela superiore, rispetto a quella assegnata ai segni distintivi “forti”? L’attuale regime di tutela non appare forse una contraddizione in termini, un retaggio storico, sociale ed economico, di impronta fortemente anti liberale?