I reati societari: bancarotta fraudolenta e distrazione alla luce del D. Lgs n. 14 del 12.01.2019, “Nuovo Codice della Crisi d’impresa” e della più recente Giurisprudenza di diritto. Studiamo il caso.
Il nuovo Codice della crisi d’impresa ha inteso dare univocità e coerenza ad una serie di strumenti alternativi alle procedure fallimentari ed al concordato preventivo, da utilizzare in via anche preventiva, al fine di aiutare le imprese in stato di insolvenza.
La disciplina unitaria dettata dal predetto Codice, recepisce istituti tipizzati dalla L. n. 3 del 2012, ampliandone la portata e le tipologie ed impatta positivamente ed in completa armonizzazione con le disposizioni di cui al r. d. 16.03.1942 n. 267 (Legge Fallimentare).
Al riguardo, con riferimento ad i reati societari, esso modifica solo la terminologia, sostituendo a quella consueta (Fallimento) quella “più mite” di liquidazione.
Osservazione, quest’ultima, fatta propria anche dalla Giurisprudenza e che non tiene debitamente conto, tuttavia, dell’impatto della novella legislativa rispetto ai reati di bancarotta, fraudolenta, per distrazione, propria ed impropria.
Segnatamente, nel Nuovo Codice, sono presenti due disposizioni, agli art. 24 e 25, rubricati rispettivamente: “Iniziativa tempestiva” e “Misure premiali”, la cui applicazione, nei casi concreti, rende particolarmente onerosa la prova della sussistenza dei predetti reati.
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Ne è un esempio, probabilmente involontario e/o casuale, una recente sentenza della Suprema Corte: Cass. Penale, Sez. V, del 26.05.2021 n. 20879, con la quale, in accoglimento del ricorso proposto in terzo grado, viene annullata la statuizione impugnata.
Quest’ultima, invero, si era limitata a riformare la pronuncia del Giudice di prima cure solo limitatamente alla durata delle pene accessorie ex art. 216 l. fall., confermando, sostanzialmente, la sentenza del Tribunale, con la quale era stata affermata la responsabilità dell’Amministratore Unico di S.r.l, per i reati di bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale.
La quaestio iuris sottesa alla decisione dei Giudici di nomofilachia afferisce alla possibilità di ritenere comprovata l’esistenza di beni sociali, non rinvenuti nella curatela, attraverso le scritture contabili e i documenti sociali e, in caso di risposta affermativa, alla misura e alle modalità di declinazione dell’onere della prova.
Sul punto, la pronuncia in commento muove dall’orientamento giurisprudenziale (cfr. ex multis, Cass. Pen. Sez. V, n. 17228 del 17.01.2020), secondo cui la prova della distrazione e dell’occultamento è integrata dalla mancata dimostrazione, da parte dell’Organo Amministrativo, della destinazione dei beni aziendali.
Il che, naturalmente, presuppone l’assolvimento dell’onere probatorio avente ad oggetto l’esistenza di beni non rinvenuti dagli Organi della Curatela Fallimentare.
Ebbene, secondo i Giudici del diritto, tale prova può essere desunta anche indirettamente dagli ultimi documenti attendibili, prima dell’interruzione dell’esatto adempimento degli obblighi di tenuta dei libri contabili.
Anche il bilancio può costituire un elemento utile ai fini della ricostruzione del patrimonio sociale, purchè redatto in conformità alle prescrizioni previste ex lege agli art. 2423 c.c., comma 2, 2423 bis c.c., n. 1) e 2426 n. 9.
Sulla base delle riportate coordinate ermeneutiche, la Suprema Corte, relativamente al caso sottoposto ad esame, ha ritenuto fondati entrambi i motivi di censura, dedotti dal ricorrente per cassazione.
In particolare, in ordine al primo, ha ritenuto la fondatezza della censura secondo la quale la Corte d’Appello avrebbe ritenuto l’integrazione del reato, sulla base di una mera presunzione, ovvero postulando l’esistenza di una condotta di distrazione, analizzando un bilancio del 2010, antecedente all’epoca dell’acquisto delle quote sociali da parte dell’imputato.
Inoltre, dall’analisi del predetto bilancio, emergeva una notevole differenza tra quanto emerso nel documento stesso ed il prezzo d’acquisto delle quote.
Riguardo, quindi, alla possibilità di ritenere configurato il reato, la Cassazione Penale ha un approccio concreto, basato sull’analisi del singolo caso, al fine di ritenere soddisfatto l’assolvimento dell’onere della prova della sussistenza della condotta tipica del reato contestato.
Quanto all’elemento psicologico del reato, la Suprema Corte accoglie il secondo motivo di censura dedotto dal ricorrente, secondo cui non sarebbe stata fornita la prova del dolo specifico, tipizzato dalla norma incriminatrice.
In ultima analisi, nell’ambito dei reati societari si assiste ad un approccio ermeneutico di tipo anglosassone, basato sulla tesi del “Case by case”, conferendo alla fattispecie incriminatrice una dimensione temporale e realistica e rendendo oltremodo gravoso l’assolvimento dell’onere probatorio della sussistenza dei reati societari.