A chi non è mai capitato di imbattersi nel classico gioco delle tre carte, o delle tre campanelle, a seconda delle varianti del caso? È un pò una sorta di gioco ambulante. Spesso lo si incontra a ridosso di grandi stazioni ferroviarie o metropolitane. O agli stadi e comunque in tutti quei luoghi di grande assembramento.
Di solito consiste nell’allestimento di un piccolo tavolino, dove sono radunate almeno tre persone. Vale a dire colui che guida le danze, ossia tiene il banco, e poi due suoi complici di fronte che animano il gioco. La funzione di quest’ultimi è quello di invogliare gli ignari passanti a partecipare. Come? In pratica i complici sono parte attiva del terzetto, fanno le loro puntate sulle carte, e spesso vincono. Al punto da sembrare di stare a mandare in rovina il banco; in realtà, quelli sono soldi della cassa, ed è tutta una messa in scena.
In questi casi scatta la tentazione di fermarsi a guardare, e la facilità e rapidità con cui i due “vincono” costituiscono un forte incentivo a lasciarsi prendere. Ossia prendere la prima banconota da scommettere, e che al 99% andrà persa. Al più ne può scappare una seconda, ma i più saggi di solito chiudono subito l’esperienza e ingoiano il boccone. Mentre vanno via hanno una domanda per la testa: ma è reato il gioco delle tre carte?
La sentenza 26321 della Cassazione
Indice dei contenuti
Una recentissima sentenza della Cassazione, la n. 26321, ha sancito che il gioco delle tre carte (e sue piccole varianti) non costituisce reato. Ma solo laddove la condotta dei tre soggetti è di tipo occasionale. In questo caso, infatti, non si rientra nell’esercizio abituale e abusivo dei giochi di pubblica scommessa non autorizzati. Al più, continua la sentenza, vi possono essere solo i presupposti per una contravvenzione. Questo nel caso in cui la probabilità di perdere o vincere il denaro scommesso dipende quasi in modo esclusivo dalla sorte. E non già dalle abilità dei partecipanti.
Ma è reato il gioco delle tre carte?
In pratica la considerazione della Suprema Corte è che è risaputa la scarsa probabilità di vincita in simili competizioni. Le quasi basano quasi integralmente il loro successo sull’abilità di chi lo allestisce. Quindi se uno vi partecipa liberamente lo fa con cognizione di causa. Poi se perde i soldi della scommessa non può che prendersela con se stesso. Il banco difficilmente viene battuto e questo è risaputo, sostiene la Cassazione. L’intera filosofia del gioco si basa infatti sull’inganno, visivo e mentale, altrimenti banco e soci non si cimenterebbero in simili iniziative. Per cui, come suol dirsi, chi è causa dei suoi mali pianga se stesso.