De-globalizzazione, come ci siamo arrivati?

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La de-globalizzazione è un riequilibrio dell’ordine internazionale, basato su un mondo meno connesso, caratterizzato da Stati nazionali potenti, soluzioni locali e controlli alle frontiere, piuttosto che da istituzioni globali, trattati e libera circolazione di merci, servizi e persone.

Cosa sta succedendo all’ordine internazionale?

Negli ultimi tempi, sono sempre maggiori i segnali di de-globalizzazione. Ma a cosa ci si vuol esattamente riferire con tale concetto? Per semplificare, con esso si intende un processo tendenziale di riduzione degli scambi internazionali, a fronte di un aumento delle politiche protezionistiche da parte di attori globali.

La prima fase di rallentamento della globalizzazione è cominciata a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008. I dati però ancora non mostravano un processo di contrazione globale negli scambi commerciali. La de-globalizzazione, va quindi cercata altrove.

Per comprendere meglio ciò che sta avvenendo occorre indagare come siano cambiate le catene globali del valore, sia dal punto di vista economico che geopolitico. Dal punto di vista economico, si può osservare una tendenza all’accorciamento delle supply chain, attraverso una minore delocalizzazione delle produzioni. Dal punto di vista geopolitico, si assiste a fenomeni variamente denominati friendshoring, reshoring o nearshoring- che indicano un ritorno delle produzioni in aree a minor rischio geopolitico o geo-economico.

Un nuovo modello di globalizzazione

L’insieme di questi due fenomeni ha creato la narrazione di un mondo che procede verso la de-globalizzazione. Meglio sarebbe parlare di una nuova globalizzazione. Infatti, la ridefinizione delle supply chain su base macro-regionale o sulla base di alleanze geopolitiche, ha prodotto una nuova geografia nelle catene di produzione e distribuzione di beni e servizi sul pianeta.

Vi è però anche chi sostiene, come la rivista Aspenia pubblicata dal think-tank USA Aspen Institute, che siamo entrati in una fase di “slowbalization”, cioè un rallentamento della globalizzazione.

Tale tendenza era già emersa nella fase post pandemica, quando i maggiori attori globali avevano iniziato a diminuire la quota di beni importati, in rapporto al PIL. Si è poi accentuata nei mesi successivi al deflagrare del conflitto russo-ucraino e da allora non ha più invertito la direzione. Inoltre, in Europa e in USA sono state rafforzate alcune nuove politiche commerciali. Europa e USA necessitano di diminuire la dipendenza dalle materie prime russe e dai semilavorati e prodotti finiti cinesi. Ciò ha concorso a determinare una nuova politica delle supply chain; meno esposte a rischi geopolitici e quindi riorientate verso il blocco occidentale.

USA v. Cina

Gli USA hanno adottato politiche tariffarie di tipo protezionistico verso le forniture provenienti dalla Cina. Queste politiche, rafforzatesi sotto la presidenza Trump, proseguono ora con l’amministrazione Biden. La Casa Bianca ha varato due importanti provvedimenti volti a tutelare la sicurezza nazionale ed economica del paese: il Chips Act e l’Inflation reduction Act.

Se le ripercussioni di tutto ciò non sembrano avere effetti significativi nel breve periodo, la stessa cosa non potrebbe dirsi nel medio-lungo periodo. Infatti, la tendenza a regionalizzare i processi di globalizzazione, preferendo accordi commerciali bilaterali, potrebbe riflettersi sull’attuale ordine economico globale. Esso si fonda principalmente su istituzioni economico-finanziarie di carattere multilaterale (Wto, Fmi, Banca mondiale), le quali potrebbero essere indebolite dalle nuove tendenze in atto.

Le conseguenze economiche

Se la de-globalizzazione continua ad accelerare, in generale, i tassi di crescita saranno più bassi e l’inflazione più alta, poiché i beni e la manodopera saranno meno ottimizzati. I cicli economici potrebbero diventare più volatili a causa di una minore condivisione dei rischi a livello internazionale e i margini aziendali potrebbero subire pressioni, soprattutto tra le aziende che hanno beneficiato dell’esternalizzazione del lavoro.

D’altro canto, esiste anche il potenziale per un aumento degli investimenti, soprattutto se si considera il fabbisogno di investimenti per la transizione energetica e la crescente domanda di materie prime.

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