Dall’abusivo ricorso al credito alla fattispecie di abusiva concessione del credito

Cassazione

Dall’abusivo ricorso al credito alla fattispecie di abusiva concessione del credito.  Legittimazione processuale del curatore fallimentare ad agire contro l’Istituto di credito. Studiamo il caso.

L’abusivo ricorso al credito è disciplinato dall’art. 218 L. Fall., che sanziona amministratori, direttori generali, liquidatori ed imprenditori che ricorrono al credito, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza.

Analoga disposizione normativa è riportata dall’art. 325 del d. lgs 12.01.2019 n. 14.

Il confine tra la configurazione di tale fattispecie e quella di abusiva concessione di credito è stato tracciato dall’elaborazione giurisprudenziale, venutasi a formare in materia societaria e fallimentare, ancorandosi ad un poliedrico sistema normativo.

La quaestio iuris è stata oggetto di una recente sentenza della Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimazione processuale del Curatore Fallimentare ad agire contro la banca incorsa nell’abusiva concessione del credito, senza aver agito nei confronti dell’amministratore della società fallita.

All’origine della vicenda processuale vi è l’impugnazione della sentenza d’Appello, di parziale accoglimento del gravame avverso la pronuncia di primo grado, che aveva rigettato la domanda attorea.

Dall’abusivo ricorso al credito alla fattispecie di abusiva concessione del credito

Segnatamente, la Corte d’Appello di Perugia ha ritenuto la curatela fallimentare priva di legittimazione ad agire nei confronti dell’istituto di credito, sul presupposto per cui: “E’ necessario passare per un’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore, rispetto al quale la condotta della Banca si pone in termini di complicità, con conseguente estensione solidale della condanna agli Istituti di Credito del danno arrecato al patrimonio sociale dell’imprenditore”.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la curatela ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, entrambi ritenuti fondati dall’Organo di Nomofilachia, che ha cassato la sentenza di secondo grado, con rinvio ad altra sezione della Corte D’Appello, affiinchè provvedesse alla trattazione della causa, tenendo conto dei principi di diritto espressi dalla Cassazione.

In particolare, con la sentenza n. 24725 del 14 settembre 2021, la Sezione I della Cassazione Civile ha tracciato il confine tra le due fattispecie di illecito, ravvisandolo nel sostrato normativo mutuato dalla disciplina primaria e secondaria, dagli accordi internazionali, dalla legislazione speciale in materia bancaria, nonché da alcune disposizioni del codice civile.

In ordine alla disciplina di matrice europea ed internazionale, la sentenza fa riferimento agli accordi di Basilea ed all’art. 142 Regolamento Ue 575/2013, per poi esaminare il Testo Unico Bancario, con riguardo agli articoli 53,67,108,114 quinquies e 114 quaterdecies, disciplinanti il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni.

Sul versante della normativa interna, il riferimento è alla disciplina delle obbligazioni ed alle due disposizioni codicistiche sulle quali si fonda, come su pilastri, il sistema delle obbligazioni.

In primis, la disposizione di cui all’art. 1173 c.c., rubricata “Le fonti delle obbligazioni”, sulla cui lettera ed interpretazione l’elaborazione ermeneutica ha fondato la teoria della responsabilità “da contatto sociale”, applicata alla responsabilità medica.

In secundis, l’art. 1176 c.c., secondo la quale l’ obbligazione deve essere adempiuta con la diligenza del buon padre di famiglia e che, con riferimento alle obbligazioni oggetto di professioni “qualificate”, richiede un grado di diligenza parametrato alla qualifica della professione. Segnatamente, muovendo dall’art. 1173 c.c., la Suprema Corte applica analogicamente la tesi del contatto sociale qualificato alla responsabilità dell’operatore bancario o del finanziatore tout court, affermandone la natura contrattuale, laddove appunto, il contatto sociale qualificato assurge a fonte del diritto di rango pari al contratto.

Sancita la responsabilità a titolo contrattuale dell’istituto di credito, per l’ipotesi di concessione abusiva di credito, la Cassazione precisa che la diligenza richiesta alle banche ed agli intermediari finanziari deve essere parametrata alla natura qualificata della professione, ai sensi dell’art. 1176 c.c.

Poste tali coordinate interpretative, l’Organo di Nomofilachia, con la citata pronuncia, afferma l’irrilevanza, sotto il profilo della legittimazione processuale del curatore fallimentare, della mancata proposizione dell’azione di responsabilità nei confronti dell’Amministratore della società fallita, colluso con l’Istituto di Credito.

Segnatamente, viene enunciata la massima di diritto secondo la quale il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva di credito, quando abbia agito con dolo o colpa grave, erogando credito ad impresa in stato d’insolvenza o in stato di difficoltà economico finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi.

In tal caso, infatti, è configurabile un’obbligazione risarcitoria in capo all’operatore bancario, il quale è venuto meno ai suoi doveri primari di diligenza “qualificata”.

Questo, qualora ne discenda un aggravamento del dissesto aziendale, favorito dalla continuazione dell’attività d’impresa.

Diversamente, non integra l’abusiva concessione del credito la condotta della banca che abbia erogato credito, pur al di fuori di una procedura di risoluzione della crisi, ad impresa suscettibile, secondo una valutazione “Ex ante”, di superare lo stato di crisi o di permanere sul mercato.

La ratio decidendi sottesa alla pronuncia de quo è da ravvisarsi nell’esigenza di tutelare la garanzia generica patrimoniale, di cui all’art. 2740 c.c.. ovvero le ragioni della “Massa indistinta” dei creditori: Il Curatore che agisce contro la banca incorsa nell’illecito di abusiva concessione di credito, non è tenuto ad agire preliminarmente e/o contestualmente contro l’Amministratore della società fallita, sul presupposto per cui il suo agire in sede processuale è esplicazione della volontà di tutelare la garanzia ex art. 2740 c.c.

Va da sé che la predetta esigenza di tutela prevale su un principio di solidarietà delle responsabilità, invocato dalla sentenza di appello, ma non ancorato ad alcun dato normativo.

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