Questo è il caso di una storia infinita che ricorda e spesso supera quella di Alitalia. Il Monte dei Paschi di Siena (MPS) si avvia a fatica verso la privatizzazione che, salvo l’imponderabile, potrebbe avvenire il prossimo anno, UE permettendo.
Fallita la trattativa (o il primo round?) con Unicredit, il Tesoro si affretterà a chiedere all’UE più tempo per la sua vendita. Questo per creare le condizioni ideali per trovare un nuovo partner a cui dare in sposa l’istituto senese.
Nel frattempo, in tanti si chiedono: ma cosa rischiano il Monte dei Paschi e i correntisti se entro Capodanno non viene venduta la banca?
L’inizio della fine: gli ultimi 15 anni
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Per capire perché oggi MPS è in queste condizioni, occorre conoscere il suo recente passato. Proviamo a riassumerlo il più possibile.
Nel 2007 la banca senese compra Antonveneta al doppio del suo valore: 9 miliardi di euro. Con l’occasione arriva il primo aumento di capitale (adc) da 5 miliardi di euro. Poi nel settembre 2008 avviene il fallimento di Lehman Brothers e quindi la crisi dei mutui subprime, che in Italia e in Europa si tinge di crisi dei debiti sovrani.
Questi eventi esterni, infatti, ci misero del proprio nella crisi in corso in casa MPS. Nel 2009 c’è il primo soccorso dello Stato (1,9 miliardi di euro di Tremonti Bond), 2 anni dopo il secondo adc da 2,1 miliardi di euro. Ancora, nel 2013 arrivano 3,9 miliardi di Tremonti Bond, metà dei quali impiegati per ripagare i primi. Nello stesso anno arriva il terzo adc da 5 miliardi di euro, mentre il quarto adc lo si ha nel 2015 (3 miliardi).
Gli anni a noi più vicini
Superfluo dire che sono stati anche anni di pesanti critiche e accuse (a tutti i livelli), di cambi al vertice della banca e di massicci controlli da parte della Vigilanza.
La situazione nel frattempo non migliora, anzi la BCE nel 2016 scopre 45 miliardi di euro di crediti deteriorati, poi svalutati. L’anno dopo lo Stato ricapitalizza la banca (5,4 miliari di euro) per non farla fallire e a Siena diviene il primo azionista.
Infine arriviamo ai giorni nostri. Per evitare il crack, nel 2020 lo Stato si accolla 8,1 miliardi di euro di crediti deteriorati. Poi fa una promessa a Bruxelles, ossia quella di venderla sul mercato entro il 31 dicembre 2021, tra 46 giorni, per intenderci.
Parola mantenuta? Ancora no. In particolare, il recente naufragio della vendita a Unicredit è saltato per via delle condizioni imposte dall’acquirente. Vale a dire 7mila dipendenti a casa, un nuovo adc da 6,3 miliardi più altri 2,2 di agevolazioni fiscali.
Perché non si trova un compratore?
Qualcuno ha criticato come eccessive le condizioni imposte da Unicredit allo Stato. Non sappiamo se siano critiche di parte o obiettive, tuttavia un punto ci fa riflettere.
Da decenni il settore bancario è in fase di aggregazione: meno concorrenza, più profitti. I big players pertanto non perdono occasione per assestare colpi ed acquisire nuovi sportelli. MPS, quindi, rappresenta l’occasione giusta.
Tuttavia, molti esperti contestano all’istituto senese il suo eccesso di personale. In un’era in cui domina l’home banking, questo fattore allontana i compratori. Se così non fosse stato, forse tanti gruppi bancari avrebbero fatto la fila per comprarla.
Cosa rischiano il Monte dei Paschi e i correntisti se entro Capodanno non viene venduta la banca?
Come evolverà la faccenda, cosa hanno da temere i clienti e i correntisti di MPS? Domani, tra un mese o un anno, la banca continuerà ad operare e ad erogare i servizi alla clientela come sempre. Nulla da temere per i correntisti, che peraltro hanno nello Stato il loro primo azionista (e quindi proprietario della banca).
Il grosso delle trattative, invece, nel breve termine si sposteranno in sede europea. Da un lato si dovrà chiedere alla Commissione una proroga per la sua privatizzazione (si parla di un anno in più). Dall’altro bisognerà trattare con la BCE in merito ai suoi coefficienti di capitale. Se questi non verranno giudicati adeguati, potrebbe scattare un altro adc.
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