Le più recenti pronunce della Suprema Corte, sul tema della responsabilità dell’Organo Amministrativo nei confronti della società, denotano una sorta di favor per l’attività gestoria latu sensu ed un “irrigidimento” dell’ onus probandi, a carico del soggetto (attore in giudizio), che invoca tale forma di responsabilità.
Segnatamente, è invalso in giurisprudenza il principio per cui: La condanna dell’amministratore ( convenuto in giudizio) al risarcimento dei danni ( occorsi alla società) implica sempre la prova del nesso di causalità tra la condotta di mala gestio, addebitata all’amministrazione ed il danno occorso alla società.
Azione di responsabilità promossa dalla curatela fallimentare, per atti di mala gestio dell’Amministratore convenuto e rilevanza della mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, ai fini del risarcimento del danno. Natura contrattuale della responsabilità degli amministratori, nei confronti della società e inversione dell’onere probatorio, con onus a carico del curatore del fallimento.
Studiamo il caso.
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Se l’affermazione appare meritevole di lode, essendo preordinata ad escludere condanne dell’Organo Amministrativo basate su mere astrazioni, ipotesi e/o dati probabilistici e non ancorate a dati e/o fatti concreti, essa pone in evidenza una questione di diritto di non poco conto.
Come noto, infatti, pacifica è la natura contrattuale della responsabilità degli Amministratori, nei confronti della società, con la conseguenza che l’accertamento, in corso di causa, di tale forma di responsabilità, richiederebbe l’applicazione del regime probatorio contemplato dall’art. 1218 c.c., in tema di inadempimento delle obbligazioni e applicabile in materia contrattuale. In ordine alla prova dell’inadempimento delle obbligazioni (contrattuali), secondo la lettera della citata disposizione codicistica, il creditore, che agisca (attore) in giudizio deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte. Il debitore convenuto, invece, è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento.
Azione di responsabilità promossa dalla curatela fallimentare
Le recenti sentenze dell’Organo di Nomofilachia inaugurano un filone ermeneutico che “rompe” gli schemi del codice civile: La responsabilità dell’Amministratore di società, pure essendo di natura contrattuale, è subordinata all’assolvimento, in corso di causa, dell’onere probatorio di cui all’art. 2043 c.c., applicabile in tema di illecito aquiliano, ovvero “extra contratto”, ai fini del risarcimento del danno causato da ogni atto o fatto contra ius, che non abbia la sua fonte in un contratto.
In altri termini, secondo l’interpretazione resa dalla Suprema Corte, viene meno la corrispondenza tra fonte contrattuale della responsabilità civile e onere probatorio tipizzato dalla disposizione di cui all’art. 1218 c.c., da un lato e fonte extracontrattuale ed illecito aquiliano, dall’altro.
Ad essere messi in discussione sono istituti secolari di diritto, pilastri della responsabilità civile disegnata dal codice civile.
Istituti, questi, che risultano plasmati dall’esigenza di affievolire il formalismo ed ancorare, sempre di più, ai fatti concreti, l’allocazione della responsabilità civile e l’obbligo del risarcimento del danno.
È quanto accaduto con l’Ordinanza n. 15245, pubblicata il 12.05.2022 dalla Sez. I della Cass. Civile, di accoglimento del ricorso, proposto dagli amministratori soccombenti in primo e secondo grado, avverso la sentenza della Corte d’Appello, cassata con rinvio.
All’origine della vicenda processuale, vi è l’azione promossa dal curatore fallimentare, ex art. 146 legge fallimentare, nei confronti degli amministratori della società, dinnanzi al Tribunale di Palermo.
A seguito della condanna in solido degli amministratori, al risarcimento del danno cagionato alla società fallita, liquidato nella misura pari alla differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare, gli amministratori soccombenti impugnavano la sentenza dinnanzi alla Corte d’appello, la quale, tuttavia, respingeva il gravame.
Segnatamente, secondo i Giudici d’appello, la curatela aveva assolto l’onere di provare la fonte contrattuale del diritto azionato, identificata nel rapporto che lega la società all’amministratore. Per contro, gli amministratori avevano disatteso i doveri di buona amministrazione “innanzi tutto con la violazione delle norme contabili, che impongono l’annotazione delle effettive movimentazioni proprie dell’attività d’impresa esercitata in forma societaria”.
La Corte d’Appello ha precisato che il difetto di contabilità non era stato utilizzato quale criterio dal quale desumere l’irregolarità in via presuntiva, ma come mancata giustificazione, in relazione a molteplici operazioni, di significativi importi e prive di riscontro. In ultima analisi, secondo la Corte d’Appello, per andare esenti da responsabilità, gli amministratori avrebbero dovuto dare contezza delle singole operazioni compiute, assolvendo solo così all’onere probatorio previsto dall’art. 1218 c.c., in tema di responsabilità contrattuale.
Le argomentazioni rese nella sentenza de quo risultano completamente ribaltate dall’Organo di Nomofilachia, sulla base delle seguenti osservazioni di diritto:
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore ex art. 146, secondo comma. Legge Fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare.
In particolare, secondo la Suprema Corte, tale criterio può, in limine, essere utilizzato quale parametro per una liquidazione in via equitativa, qualora ne sussistano le condizioni e purchè l’attore, in giudizio, abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato. In tal senso, cfr, ex multis: Cass.Sez. Unite n. 9100-15; Cass. N. 38/17, Cass. N. 13220-21.
Secondo l’Ordinanza de quo, la sentenza della Corte d’Appello risulta in contrasto con i suesposti principi di diritto, poiché essa non ha indicato in quale modo gli addebiti mossi agli amministratori, ovvero la mancata-corretta tenuta delle scritture contabili si ponessero in relazione causalistica con gli effetti dannosi dell’attività gestoria. I fatti menzionati nella pronuncia impugnata, per vero, non assumono alcuna rilevanza sotto il profilo del nocumento patrimoniale arrecato alla società.
Ritenere il contrario, secondo la Suprema Corte, comporterebbe l’assurda conseguenza, secondo la quale:
in mancanza di regolare tenuta delle scritture contabili, l’intero deficit fallimentare debba essere automaticamente attribuito ad atti di mala gestio, a prescindere dall’identificazione di tali atti e dalla loro solo presunta idoneità pregiudizievole.
Per tale via, la Cassazione Civile afferma il postulato interpretativo secondo cui: Nell’ambito delle azioni di responsabilità, grava sempre, in linea di principio, su chi agisce in giudizio l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità materiale tra questo e le condotte, che si assumano tenute in violazione degli obblighi inerenti alle funzioni gestorie proprie degli amministratori.
La mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili non è idonea a giustificare la condanna dei medesimi, la quale presuppone l’assolvimento dell’onere probatorio, in ordine all’esistenza di condotte, per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale.
Di conseguenza, conclude la Suprema Corte, il criterio del deficit fallimentare è applicabile, ma solo quale criterio equitativo, nell’ipotesi di impossibilità di quantificare il danno, a condizione che si fornisca la prova, almeno in via presuntiva, di condotte di mala gestio.
Se ne inferisce il postulato interpretativo per cui l’accertamento della responsabilità dell’Organo Amministrativo di società presuppone l’assolvimento dell’onere probatorio contemplato dalla disposizione di cui all’art. 2043 c.c., in tema di responsabilità extracontrattuale, con inversione dell’onus probandi, rispetto allo schema tipizzato dall’art. 1218 c.c., in ambito contrattuale.
Azione di responsabilità promossa dalla curatela fallimentare. Le conclusioni
L’applicazione del regime probatorio mutuato dall’istituto dell’illecito aquiliano, alla responsabilità degli amministratori di società, di natura contrattuale non sembra, agli occhi dei Giudici del Diritto, porre problemi di “tenuta di sistema”, rappresentando, per converso, l’ennesimo tentativo di adeguare le norme al caso concreto, con un approccio basato sul “Case by case”, di matrice anglosassone.
Il diritto italiano si adegua non solo a quello europeo, ma anche ai sistemi di common law, dai quali eredita pragmatismo, concretezza, chiarezza, semplificazione e capacità di adattare la norma al caso, superando il formalismo della semplice sussunzione del fatto nel diritto.
La responsabilità dell’Amministratore di societas si configura sempre di più come un genus ibrido, che mantiene ferma la natura contrattuale, avendo essa la sua fonte in un rapporto negoziale e, tuttavia, condivide profili (probatori) di quella aquiliana.
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